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Il sensore digitale

di Simone Bassani

Eccoci qua, a parlare di sensori, argomento trito e ritrito che spesso annoia, quindi cercherò di farlo in modo spero chiaro e esaustivo riducendo il più possibile l’argomento ai minimi termini! Purtroppo credo di essere andato un poco lungo nello scrivere l’articolo, pertanto ve lo dovrete sorbire così, mi spiace.

In primo luogo, cos’è un sensore? Siete mai andati a leggere la definizione di sensore sul dizionario online dell’enciclopedia Treccani? Non fatelo, io l’ho letta una volta e non mi sono ancora ripreso.

Per definire un sensore vengono usati necessariamente termini corretti, tecnici e ineccepibili e quindi faticosi da comprendere. È giustissimo usare questi termini, ma in questo caso voglio semplificare molto il discorso.

Avete presente la vecchia pellicola analogica? Sì?
Bene, immaginate la stessa cosa in versione digitale. Questo è il sensore, discorso finito!

O forse no…

Prendiamola con calma e cerchiamo di guardare alla storia della fotografia per meglio comprendere come si è arrivati ai giorni nostri con alcuni brevi passaggi e piccoli dati.

Il primo su tutti, il formato più importante in fotografia è il 24x36mm derivato direttamente dal cinema e chiamato per molto tempo formato Leica. Non che abbia smesso di chiamarsi così, ma le persone sono oramai use chiamarlo Full Frame. Tenetelo a mente Formato Leica = 24x36mm = 35mm (dato dall’altezza della perforazione della pellicola) = film 135 (che corrisponde al codice Kodak usato per definire i rullini) = Full Frame.

E quando sarebbe nato questo formato? Nel 1913! Oskar Barnack, un dipendente della Leitz, ebbe l’idea di convertire un prototipo di esposimetro (alcune fonti dicono un prodotto per testare la qualità degli obiettivi) in una macchina per fare le fotografie e questo progetto venne sviluppato fino a renderlo perfettamente funzionante e dotarlo di un contenitore porta pellicola di 36 pose. Semplice, vero? Ma accadeva altro nel 1913? Sì, Édouard Belin, un ingegnere francese, inventò un sistema rivoluzionario: il Belinograph. Un apparato in grado di trasmettere fotografie a distanza sulla linea telefonica, attenzione, non era un fax. Era invece un vero sistema di acquisizione e trasferimento d’immagine: la fotografia veniva letta e trasferita via telefono a un dispositivo che impressionava la carta fotosensibile. Da quel momento si è cercato di costruire un mezzo compatto, comodo e rapido che potesse trasferire l’immagine a distanza e questo ha portato a una lunga evoluzione.

Nel corso del tempo Leica divenne sinonimo di qualità e marchio distintivo per i fotoreporter e il formato si diffuse tra le masse e divenne uno standard universale. Nel mondo, invece, ci vollero anni prima di giungere ai primi sistemi elettronici in grado di immagazzinare la luce con sufficiente qualità.

Lasciamo perdere tutto quello che è avvenuto in quasi un secolo e arriviamo al 1994 quando la Kodak introdusse la rivoluzionaria DCS 420 con un sensore di 13,8×9,2 mm e una risoluzione di 1,5megapixel per poi affiancarla nel 1995 con la DCS 460 dotata di un sensore di 27,6×18,4mm e 6,2megapixel, stravolgendo così il mondo della fotografia.

Facciamo chiarezza: le prime fotocamere digitali che avevano una parvenza comune e professionale sono state le Kodak. Si basavano su un corpo macchina reflex, una classica fotocamera formato 24x36mm. Il sensore era però molto più piccolo, piccolissimo, non raggiungeva le dimensioni del pieno formato Leica 24x36mm.

Pensate, quel sistema era così ingombrante che le batterie, i circuiti e la dissipazione erano grandi e pesanti quanto la fotocamera stessa. E il sensore non copriva il pieno formato, era molto vicino a un formato che nasceva in quegli anni, l’APS (lanciato da Kodak, Fuji, Agfa e Konica). Mmm un altro formato?

Ebbene sì, per anni il mercato della fotografia digitale si è basato su sistemi dotati di sensori in formati prossimi all’APS definiti quindi APS-C, ma non essendo uno standard univoco, produttori diversi hanno usato dimensioni differenti di sensore. Questo formato è ancora oggi utilizzato per fotocamere ad uso specialistico o fotocamere destinate al mercato più commerciale, ma non per questo fornisce una qualità inferiore, anzi, in alcuni casi si presenta come un’ottima soluzione tecnica in grado di superare i limiti dei sistemi ottici.

Infatti, il sensore ha bisogno di circuiti elettronici e altri componenti per funzionare. Se però è troppo grande tende a scaldarsi molto e, allo stesso modo, se è molto piccolo e deve acquisire tante informazioni si tende a surriscaldarsi. Se si scalda diventa instabile e se diventa instabile non lavora più bene! Ecco perché per anni i produttori hanno cercato di coniugare tecnologia e dimensioni, informazioni e stabilità in un unico sistema, crescendo piano piano con il numero delle informazioni registrabili e contemporaneamente con le dimensioni del sensore.

Arrivare a creare sensori stabili in formato 24x36mm è stato un successo tale che ha fatto gridare al mondo Eureka! No, anzi: Full Frame! (pieno formato)

Ecco, definire un sensore Full Frame è usare il termine più semplice per dire finalmente ci siamo arrivati, un po’ un percorso alla spera che prima o poi si avvera.

Ma raggiungere questo formato non è propriamente sinonimo di qualità.

Prima di parlare di qualità vediamo il sensore…

Praticamente tutto nasce lì. La luce arriva, il sensore la “immagazzina” e la tramuta in informazioni che poi verranno sviluppate da un programma.

Lasciamo perdere i tecnicismi, in definitiva il sensore è il cuore della nostra fotocamera digitale e è in grado di convertire la luce in informazioni, o meglio, questa parte dobbiamo chiarirla perché detta così è sbagliata e molto!

Quando parliamo di sensore, nella maggior parte dei casi, commettiamo l’errore di pensare che sia un singolo elemento e non un sistema complesso e articolato composto da più elementi che interagiscono tra loro.

Spoiler… Parte noisa (più di prima)

I sensori fotografici si dividono principalmente in due tipologie:

CCD (charge-coupled device) e CMOS (complementary metal-oxide-semiconductor) e ognuno di essi ha pregi e difetti.

Il sensore è composto da:

– filtri di colore (CMOS e CCD interno al sensore)
– dalla matrice di pixel (CMOS e CCD interno al sensore)
– amplificatore (CMOS e CCD interno al sensore)
– controller Digitale (CMOS interno – CCD esterno al sensore)
– convertitore A/D (CMOS interno – CCD esterno al sensore)

Guardando l’immagine notiamo che il filtro colore e la matrice sono comuni sia ai sensori CMOS che ai sensori CCD, ciò che si nota però è che le singole celle dei sensori CMOS contengono anche un convertitore Analogico Digitale. La differenza principale è quindi che il sensore CCD fornisce all’uscita un segnale analogico, mentre il CMOS fornisce un segnale digitale avendo ogni singola cella un proprio amplificatore di segnale e un convertitore A/D incorporato. Il sensore CMOS è più veloce nella lettura e nel trasferimento dei dati ma potenzialmente meno uniforme dato che ogni singolo pixel lavora indipendentemente dagli altri.

Invece di sensibilizzare un elemento solido come accadeva con la pellicola e l’alogenuro d’argento, la luce attiva una reazione che produce una carica elettrica, più luce arriva più il fotodiodo sarà attivato e pertanto produrrà un segnale di maggior intensità. E questo è il primo passo! E pur avendo semplificato il tutto credo comunque di aver già creato un po’ di difficoltà.

Fine parte più noiosa

Per capire meglio cosa accade, pensiamo a un esempio più pratico, un esperimento scientifico:
vedere quanto piove in un determinato tempo in una determinata area.
Il nostro sensore sarà l’area e l’acqua la luce.

Per farlo, lasciamo una scacchiera piena di secchi all’aperto, sotto la pioggia.

I secchi si riempiranno, ognuno di essi in modo differente a seconda di come la pioggia insiste in quell’area.

Una volta che abbiamo lasciato i secchi il tempo necessario, andremo a leggere la quantità di acqua in ognuno di essi.

Per farlo abbiamo due modi: uno automatico e veloce, ovvero fornire ogni singolo secchio di un rubinetto in grado di leggerne la quantità, e automatico e lento, collegare i singoli secchi a un misuratore unico e svuotarli linea per linea in sequenza un secchio dopo l’altro.

Come ben potete capire, usando un misuratore universale avremo necessità di più tempo per misurare le informazioni, ma saremo anche più precisi nel farlo e avremo una grande uniformità, invece usando misuratori singoli avremo la necessità di tararli al meglio e saremo necessariamente in balia del loro funzionamento.

Questa è una delle differenze tra sensori CMOS e sensori CCD, ovvero: il primo tipo legge pixel per pixel con un singolo sistema dedicato, mentre il secondo legge fila per fila con un sistema unico, rallentano i tempi ma l’eventuale errore è comune a una fila intera e non a un singolo punto, pertanto si riducono gli artefatti.

Ecco, una volta lette le informazioni dei singoli secchi dovremo convertire questi dati in numeri, quindi fare in modo che le informazioni abbiano un valore definito e inviarle a quel punto a un sistema che le possa sviluppare e gestire. Se i rubinetti singoli hanno necessità di fornire informazioni già sviluppate, i rubinetti universali avranno necessità di disporre di un sistema in grado di convertire queste informazioni.

Ho semplificato molto il concetto, ma sintetizzando, i sensori CMOS consentono di avere un flusso costante di dati velocemente aggiornabili, è per questo che si possono realizzare video e guardare le immagini in mirini elettronici, mentre i sensori CCD devono prima processare tutti i dati per poi ricomporre l’immagine.

Se non cambia il processo di esposizione cambia però l’intero sistema di acquisizione. Questa evoluzione ha portato a una radicale rivoluzione dei sistemi fotografici, permettendo di realizzare fotocamere come la Leica SL dotate di mirini elettronici a alta risoluzione.

Ma il sensore nasconde alcune insidie…

Come tutti i componenti elettronici, lavorando si scalda e diciamo che il calore non è proprio un suo alleato, infatti, all’aumentare della temperatura diventa instabile e diminuiscono le sue qualità. In pratica se fa caldo si fiacca come tutti noi, non diamogli torto. Il problema, pertanto, è mantenere il sensore stabile, sia a livello elettrico che termico. E qui nasce spontanea la domanda: cosa stai dicendo?

Ragioniamo un attimo sulla costruzione di un involucro attorno al sensore. Domanda: vi piace stare al sole e al caldo? Sì? Va bene, ma ci stareste senza aria condizionata in una stanza chiusa fatta di plastica nera sotto il sole dei Caraibi? No? Neppure il sensore!

Ecco perché i dorsi digitali per le fotocamere medio formato sono più grandi dei vecchi dorsi analogici, hanno un sistema di dissipazione molto “sviluppato”. Questi sistemi, contenuti in dorsi di generose dimensioni, non possono essere però inseriti in fotocamere più compatte come le normali reflex o mirrorless, pertanto si rende necessario l’utilizzo di dissipatori di calore molto evoluti. Una fotocamera che ha introdotto il nuovo concetto di dissipazione è stata la Leica T costruita interamente in alluminio. Infatti, quando ragionate sulle performance delle macchine fotografiche, sarebbe il caso che consideraste anche la capacità di dissipazione dei corpi macchina, nello specifico, la scelta di Leica di utilizzare il metallo in tutte le componenti dei principali sistemi, porta il vantaggio di poter dissipare la temperatura molto rapidamente, a differenza di copri professionali, o non, costruiti con largo uso di plastica che non permettono le stesse performance. Sembra una banalità ma non lo è: ciò che ha sempre fatto la differenza nello sviluppo dei sistemi digitali è stata la dissipazione del calore. E soprattutto la stabilità dell’alimentazione…

L’alimentazione? Ebbene sì.

Troppo spesso si dimentica che i circuiti elettronici vivono di energia elettrica, considerazione banale ma spesso trascurata. Come anticipato per la dissipazione del calore, così per l’alimentazione, i dorsi digitali sono l’esempio migliore da valutare. Nell’evoluzione della fotografia one-shot (a scatto singolo) si sono affrontate molte problematiche, ma una su tutte ha dato filo da torcere agli ingegneri: progettare un sistema dotato di un’alimentazione stabile e a basso consumo. Inizialmente i dorsi digitali one-shot erano realizzati in modo molto semplice: sensore e sistema di dissipazione all’interno di un contenitore ben più grande di quello che oggi è l’intero dorso digitale. Esternamente, poi, vi erano collegati gli Hard Disk e l’alimentazione in modo da poter lasciare separati eventuali componenti che potessero surriscaldarsi, ma soprattutto usare stabilizzatori di tensione tali da consentire la miglior erogazione di elettricità al dorso. Per arrivare ai giorni nostri e integrare anche un display LCD nei dorsi, si è passati per molti progetti e tecnologie differenti, arrivando a sistemi che possono garantire finalmente elevata qualità costante nel tempo unitamente a flessibilità e compattezza. La costanza è un dato vincolante in qualsiasi progetto, l’instabilità dell’alimentazione, i circuiti troppo “voraci” di energia, le dimensioni troppo contenute, portano infatti a situazioni deleterie.

Abbiamo quindi visto che esistono diversi tipologie di sensore e sappiamo che oggi il più usato è il CMOS, ma anche questo sistema non è immune dagli sbalzi termici e dall’instabilità dell’alimentazione.

Nell’evoluzione della fotografia digitale si è passati per diversi sistemi di acquisizione arrivando oggi a una moltitudine di sensori in formati differenti. L’idea iniziale di Orskar Barnack di realizzare una fotocamera compatta si è fusa con l’intuizione rivoluzionaria di Édouard Belin di poter inviare un’immagine a grande distanza. In meno di un secolo il mondo della fotografia sembra essere stato stravolto e sicuramente molte altre rivoluzioni saranno alle porte.

www.simonebassani.it

© Simone Bassani

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