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I FORMATI DEL SENSORE E IL PIXEL PITCH – PRIMA PARTE

di Simone Bassani

Considero assodati alcuni discorsi: megapixel, linee millimetro, risoluzione ottica, filtro di Bayer, demosaicizzazione ecc… Quindi, dato che siamo in Italia e voi li conoscete a memoria…
(l’articolo è stato scritto nel settembre 2017)

Cos’è il pixel?

Ebbene, il pixel è l’elemento puntiforme che compone l’immagine raster

Cos’è un’immagine raster?

L’immagine raster è un file digitale, che associa a ogni singolo punto un nucleo di informazioni (coordinate e valori) e racchiude tutte queste informazioni in un file grafico

Cos’è il file grafico?

È un file con uno specifico formato (es. TIFF, JPG etc), che contiene le informazioni digitali che permettono la ricomposizione di un’immagine su un sistema di output elettronico

Cos’è un sistema di output elettronico?

Aspetta, fermiamoci un attimo, altrimenti qui non finiamo più.

Torniamo indietro.

Se l’immagine è composta da puntini chiamati pixel disposti uno affianco all’altro, sorge una domanda spontanea:

Come sono fatti questi punti, ovvero, come sono fatti i pixel e quanto sono grandi?

Beh, voglio sintetizzare e fermarmi all’idea che i pixel siano quadrati (non è sempre così, ma facciamo finta che lo sia): tanti piccoli quadratini che affiancati tra loro formano un’immagine. La loro dimensione, più o meno grande, non supera però l’ambito dei micron.

Cos’è il micron?

Il micron è un’unità di misura che corrisponde a un milionesimo di metro, ovvero un millesimo di millimetro.

Cosa c’entra il micron con la fotografia? Perché siamo arrivati al micron? Mica devo studiare io?

Ok, avete un pochino di ragione, forse non dovete studiare tutto quanto, ma il micron c’entra eccome con la fotografia. Ebbene, noi siamo abituati a rapportarci con ciò che riusciamo a distinguere, pensate a ciò che riteniamo sottile: un foglio di carta comune ha uno spessore medio di 80/100µm (micron) mentre un capello umano ha uno spessore compreso tra i 20 e i 180µm. Ecco, pensate a un foglio di carta, sembra molto sottile, ma in realtà il suo spessore è almeno dieci volte maggiore del lato di un singolo pixel.

Se noi prendessimo un singolo pixel e lo ingrandissimo 10 volte resterebbe comunque sottile almeno quanto un foglio di carta. Pensate a un sensore 24x36mm, ingrandito 10 volte, produrrebbe una stampa di 24x36cm e non riusciremmo comunque a distinguere i singoli punti a occhio nudo.

Quindi se facessimo dei punti piccolissimi potremmo ingrandire le immagini tantissimo?

Beh, in effetti è vero, più sono piccoli i pixel più possiamo ingrandirli prima che siano visibili e quindi si possano distinguere a occhio, ma non è così semplice. In primo luogo dobbiamo fare i conti con la tecnologia, fare pixel estremamente piccoli vuol dire miniaturizzare tutti i sistemi e quindi arrivare al limite delle capacità di progettazione e calcolo. Ma più che progettare in teoria, bisogna anche realizzare sistemi stabili che non abbiano perdita di qualità e pertanto un limite bisogna sempre porselo.

Un limite? Quale?

Leica ha limitato i suoi progetti a una specifica dimensione per il formato 24x36mm e 30x45mm: 6µm.

Questo dato ha un valore importante, non determina il lato di un singolo pixel, bensì il pixel pitch.

Cos’è il pixel-pitch?

La risposta è semplice: il Pixel-Pitch indica la distanza centro-centro di due pixel. Ciò significa che più saranno piccole le eventuali cornici della singola cella, maggiore sarà la dimensione del pixel stesso. Il pixel-pitch, infatti,  non indica comunemente una dimensione definita e corrispondente al singolo punto, bensì l’ingombro delle singole celle.

Allora quando dividiamo la dimensione di un lato per il suo numero di pixel, non troviamo la dimensione di quest’ultimo, bensì un pixel-pitch, ovvero quanto il centro di ogni pixel è distante dall’altro?

Giusto! Lo spazio occupato da ogni singola cella è importante e ha portato i produttori a modificare anche il modo in cui vengono realizzate per dare più spazio al fotodiodo e registrare più informazioni, ma non conta solo la dimensione, è importante anche e soprattutto come viene gestita la luce e come vengono ottimizzate le informazioni acquisite.

Perciò, pur avendo un pixel-pitch molto basso potremmo avere fotodiodi ancora più piccoli e non sfruttare al meglio il sensore?

Verissimo! Calcolare la semplice risoluzione di un sensore non ci dice quanto spazio effettivamente viene dedicato all’acquisizione della luce. Il sensore è uno strumento molto complesso, non basta applicare una formula matematica per comprendere se è un prodotto di qualità o meno.

Ma qual è una dimensione ottimale di pixel-pitch e quanto deve essere grande il fotodiodo?

Qui qualche calcolo bisogna farlo, scusate.

Allora, iniziamo:

Facciamo l’esempio sul formato 24x36mm e partiamo dal presupposto che i pixel sono quadrati: invece di calcolare quanti pixel riusciamo a mettere in un sensore, iniziamo a pensare ai migliori calcoli ottici che siamo stati in grado di sviluppare.

Scusa ma nessuno parte dai calcoli ottici per sviluppare un sensore, si cerca il miglior sensore sul mercato che abbia il maggior numero di pixel!

Sbagliato e molto! Ecco, questo è un errore comune: non vincolare il numero dei pixel alla risoluzione ottica. Facciamo un semplice esempio: avete presente la cruna di un ago? Piccola vero? Bene, ora, mi spiegate come fate a far stare un filo di lana di 3 millimetri di diametro in una cruna da 1 millimetro? Lo dividete in tre e usate tre aghi differenti?

Beh, sembra banale ma è quello che accade quando la risoluzione ottica è troppo bassa. Quando la risoluzione ottica non arriva a definire ogni singolo punto con precisione, l’immagine riprodotta contamina i punti adiacenti e pertanto si perde nitidezza, si perdono informazioni e si arriva ad un’immagine più piatta.

Per realizzare un sensore si deve sempre partire dall’idea che il calcolo ottico e la qualità della luce abbiano un valore imprescindibile. Non serve assemblare una miriade di piccole celle se poi i dati che arrivano sono già scarsi.

Purtroppo, sono poche le ottiche che riescono a raggiungere elevatissime risoluzioni, ma nel corso degli anni i produttori si sono impegnati molto per migliorarne la qualità.

Quindi per avere la miglior risoluzione dovremmo usare le ottiche che hanno i migliori risultati nei test MTF?

Sbagliatissimo! L’MTF (Modulation Transfer Function) è divenuto il parametro medio con cui si valutano le ottiche e spesso questi test vengono effettuati in laboratorio senza tener conto dell’indirizzo che gli ingegneri hanno preso in fase di progettazione. Il più delle volte ci si dimentica che un test non può determinare la qualità di un progetto, sopratutto se è solo uno dei test che vengono effettuati in fase di sviluppo per raggiungere il risultato prefissato. L’unica cosa che fa fede è valutare la qualità finale di un sistema ottica-fotocamera e giudicare se i risultati attesi si verificano.

Esistono obiettivi di altissima qualità progettati ancora prima dell’avvento delle fotocamere digitali quali i Kinoptik Apochromat e i Leica APO-R e esistono ora ottiche di qualità assoluta come il SUMMICRON-M 50mm APO f/2.0, ma questi prodotti, studiati per raggiungere uno specifico risultato, non sono l’eccellenza in tutte le situazioni.

Quindi anche il miglior prodotto non è sempre il migliore?

Sì, può sembrare un paradosso ma è così. Un’ottica da ritratto o di grande apertura come il NOCTILUX-M 50mm f/0,95 non deve necessariamente essere nitidissimo a tutta apertura e neppure essere il miglior obiettivo per fotografare in condizioni di luce forte, infatti nasce per fotografare nella penombra, al crepuscolo, per fare ritratti e per dare il massimo della resa a tutta apertura correggendo le aberrazioni che potrebbero insorgere. Il compito di un obiettivo così luminoso è consentire di cogliere il massimo del dettaglio in condizioni di luce scarsa quando il contrasto è ridotto e la minima differenza di toni riesce a far emergere il soggetto. Calcolare un sistema non è solo raggiungere il massimo risultato di linee millimetro, ma sapere soprattutto quando serve farlo.

Nessun produttore coscienzioso realizzerebbe mai un’ottica con la massima nitidezza a piena apertura se il prodotto fosse destinato a fotografie in luce fioca, o per il ritratto, per contro correggerà al meglio le aberrazioni e la nitidezza qualora il prodotto fosse destinato a fotografie in situazioni di luce forte e contrastata. La ragione è abbastanza semplice, più diminuisce il contrasto dell’illuminante, minore sarà anche il micro contrasto e pertanto le pur ottime prerogative delle ottiche verranno meno risultando a volte inutili, soprattutto se la qualità della luce che passa attraverso i vetri risulta falsata.

Per questa ragione non è fondamentale basarsi sui test MTF nel giudicare la qualità delle ottiche, è un discorso molto più complesso!

Troppo complesso, ma cosa c’entra con il sensore digitale?

In effetti abbiamo trovato un parametro importante: la risoluzione ottica. Ebbene, è inutile progettare sensori con moltissimi megapixel se poi non abbiamo le ottiche per risolvere con quella nitidezza. Ma è ancor più importante comprendere che non si tratta solo di dettaglio, ma soprattutto di qualità che spesso vengono trascurate. Quanto sono corrette le ottiche, quanto sono ridotte le aberrazioni, quanto il vetro ottico modifica lo spettro cromatico, quanto la precisione meccanica determina una corretta separazione dei piani? Tutte le informazioni arrivano al piano focale, ovvero il piano del sensore, e compongono l’immagine. Più la luce è buona, più le differenze tra i sistemi ottici si appiattiscono, il contrasto risulta elevato e l’immagine ha una maggiore risoluzione ma le condizioni di ripresa di solito non sono così vantaggiose e quindi ci si trova al tramonto, in penombra, in controluce a dover realizzare un’immagine importante e in quel caso non è solo la risoluzione ottica o un semplice test in laboratorio a fare la differenza, ma l’intero processo di calcolo e produzione.

Quale risoluzione dovrebbe avere un sensore per permettere all’ottica di fornire il maggior numero di informazioni?

Qui non parliamo di calcolo ottico, ma abbiamo messo in relazione l’importanza di questo con la risoluzione di un sensore. Diamo per assodato un valore importante: 167 linee/millimetro.
È un dato calcolato con precisione e sicuramente asettico messo in questo modo, ma vediamo di comprendere perché è importante.
Le ottiche Leica di nuova generazione, nei formati 24x36mm e 30x45mm, riescono a risolvere ben oltre le 167 l/mm teoriche, fornendo il massimo della qualità e garantendo prestazioni ottimali.

Cosa sono le 167 l/mm?

Sono un ottimo dato su cui basarci.
Quanto fa 24×167?
Ok, lo dico io: 4008.
E se facciamo 36×167?
Ben 6012.

167 linee per millimetro corrispondono a una risoluzione di 6 micron, ovvero un dato molto preciso, ve lo ricordate, ne abbiamo parlato prima.
Di conseguenza, con questa risoluzione, otteniamo un sensore da 24 milioni di pixel in formato 24x36mm.

Guardando alle pellicole, qualcuno potrebbe obiettare che la buona vecchia Technical Pan superava ampiamente questi valori di risoluzione, ma erano tempi diversi, quando non serviva ricorreggere in modo maniacale ogni minima imperfezione o aberrazione.

La qualità della luce è ora fondamentale e determina infatti il risultato finale.
Secondo gli studi effettuati da Leica, al momento, il miglior compromesso tra risoluzione ottica – dimensione e risoluzione del sensore porta a questi dati:

Leica TL2 – Formato APS-C – 23,6 x 15,7 mm – 6016 x 4014 pixel – pixel pitch 3,93 micron

Leica M10 – Formato Leica 35,8 x 23,9 mm – 5976 x 3992 pixel – pixel pitch 6 micron

Leica Q e Leica SL – Formato Leica 36 x 24 mm – 6000 × 4000 pixel – pixel pitch 6 micron

Leica S – Leica ProFormat 45 x 30 mm – 7500 x 5000 pixel – pixel pitch 6 micron

Risoluzioni elevate e formati differenti!

Perché l’APS-C ha un pixel-pitch minore?

Progettare ottiche compatte su formati più piccoli consente di aumentare la risoluzione anche in virtù del circolo di confusione ridotto. Lo sviluppo del sistema Leica TL ha portato a una rapida evoluzione del calcolo ottico e nuovi parametri sono entrati in campo e …

E quindi?

Cos’è il circolo di confusione? Cosa è cambiato dalla fotografia analogica alla fotografia digitale? Cosa sono le aberrazioni cromatiche?

Beh, per adesso fermiamoci qui.

to be continued…

www.simonebassani.it

© Simone Bassani

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