Joel Meyerowitz
“Out in the Streets”
“Out in the Streets”
Il 10 ottobre 2013 a Firenze, e successivamente il 26 ottobre a Milano, Joel Meyerowitz terrà due Lectio Magistralis incentrate sui suoi cinquant’anni di fotografia. Cinquant’anni in cui il grande fotografo statunitense è passato dalle prime esperienze di street photograhy per le strade di New York insieme a Garry Winogrand, all’evoluzione verso la fotografia di paesaggio in grande formato, attraverso la quale ha raccontato per trent’anni sia l’America più famosa che quella più nascosta, fino ad arrivare ad Aftermath, lo straordinario lavoro con cui ha documentato prima le rovine e poi l’inizio della rinascita di Ground Zero all’indomani della tragedia dell’11 settembre 2001. Ripercorriamo la sua carriera attraverso le sue immagini in tre articoli, dei quali i primi due si incentrano sulle sue due fasi creative fondamentali, street photography e paesaggio, e il terzo sul suo monumentale lavoro di documentazione delle rovine e della ricostruzione di Ground Zero.
1962-1976: OUT IN THE STREETS
Joel Meyerowitz, nasce nel 1938 nel Bronx da una famiglia proletaria, e comincia la sua carriera come art director di un’agenzia di pubblicità a New York. Nel ’62 ha l’occasione di assistere Robert Frank – che all’epoca aveva appena pubblicato The Americans, il libro che sarebbe diventato una delle pietre miliari della fotografia – nel corso degli scatti per una campagna pubblicitaria. È un’illuminazione: Meyerowitz non lo conosce, ma rimane colpito da come Frank si muove e da come usa la fotocamera per ottenere il massimo da una situazione apparentemente banale.
Pochi mesi dopo lascia il lavoro e comincia a dedicarsi alla fotografia. Incontra per caso un altro giovane fotografo del Bronx, Garry Winogrand, che sarebbe diventato di li a poco un’altra delle icone della fotografia americana. Insieme cominciano a percorrere le strade di New York, raccontandone le storie più semplici e i momenti più comuni, influenzandosi a vicenda ma con due stili assolutamente differenti.
“Sapevo solo che avevo bisogno di stare per la strada” ricorda Meyerowitz. Quel breve incontro con Robert Frank non è solo il catalizzatore di un’ispirazione, ma pone le basi del suo approccio visivo alla street photography. Ancora oggi Meyerovitz fotografa muovendosi e ondeggiando tra la folla, quasi come in una danza, cercando quel momento magico e fortuito in cui tutti gli elementi si compongono per creare la foto perfetta. “Il modo in cui qualcuno fa un gesto per la strada, o quello in cui due persone reagiscono l’una all’altra, o ancora la simultaneità di due cose che avvengono all’unisono e la relazione che si crea tra esse”, spiega Meyerowitz, “è ciò che cerco”.
Continua comunque a studiare, prima con Alexey Brodovitch e poi con Richard Avedon. Nel 1963, mentre fotografa la folla che assiste alla parata del St. Patrick’s Day nota un signore elegante che con una Leica fotografa a sua volta la gente, e realizza che si tratta di Henri Cartier-Bresson. “Si muoveva agile tra le persone” ricorda, “sembrava Jacques Tati”. Si avvicina e gli chiede timidamente se può offrirgli un caffè, e il grande fotografo francese accetta. Un altro momento di confronto importante per la crescita di Meyerowitz, che comincia a sviluppare uno stile molto personale.
Innanzitutto scatta a colori, in un’epoca in cui il bianconero è ancora il media di riferimento per il reportage. “Fin dal mio primo rullino ho scelto il colore e ho creduto fortemente nel suo potenziale. Perché non avrei dovuto? Il mondo è a colori!” racconta Meyerowitz. “John Szarkowski (il leggendario curatore del MoMA) aveva scritto che la fotografia non è altro che una descrizione di ciò che c’è davanti alla macchina fotografica” continua Meyerowitz. “Questo mi fece ragionare approfonditamente sul concetto di descrizione, e su come l’elemento fondamentale di una fotografia sia rappresentato dalle informazioni che contiene. Così mi resi conto del fatto che la fotografia a colori contiene più informazioni, e che rappresentava una sfida più complessa, che mi costringeva a essere più attento in termini di composizione, perché un piccolo tocco di colore sullo sfondo poteva cambiare il significato dell’intera immagine”.
Meyerowitz compone le sue immagini come dei tableaux vivants, obbligando lo spettatore a individuare tutti gli elementi del puzzle e a percepire come i movimenti delle persone, i colori, le forme i tagli di luce lavorano all’unisono per dare vita alla fotografia. Anche quando la centralità di un elemento dell’immagine è immediatamente individuabile, gli altri elementi – colori, piccoli gesti, sguardi, luci – si aggiungono ad esso per creare qualcosa di unico.