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La stampa analogica

“di Giuseppe Andretta”

Il primo articolo di una lunga serie.

Dalla stampa analogica tradizionale alla stampa digitale, in questo percorso seguiremo le tappe dell’evoluzione della fotografia, approfondendo di volta in volta le varie tematiche.
Giuseppe Andretta, docente della Leica Akademie e esperto di stampa e color management, ci guida in questa scoperta. Vedremo prima l’evoluzione dei materiali di stampa e dei processi per poi focalizzare l’attenzione sull’emulazione digitale dei vecchi procedimenti. Una lunga scoperta di materiali e tecnologie, un percorso nella storia che fornisce validi basi per il presente. Un utilissimo compendio ai corsi e seminari tenuti dalla Leica Akademie.

Le origini

L’origine della stampa fotografica è quasi paradossale. Inizialmente, infatti, uno dei padri della scoperta – Joseph Niépce – pretendeva di ottenere un’immagine ‘positiva’ direttamente nella lastra senza bisogno di una successiva stampa. Anche Daguerre, con i suoi primi ‘dagherrotipi’ otteneva immagini dirette sulle lastre ma la copia rimaneva unica

Ben presto però dovettero rassegnarsi ed accettare il ‘progresso’ di quella stessa tecnica che si stabilizzò nel ben noto processo di negativo/positivo che avviene in camera oscura.

Per la precisione la ‘carta fotografica’ venne utilizzata sin dai primi esperimenti ma, sicuramente, la data meglio attribuibile è quella del 1835 in cui William Fox Talbot cominciò a sperimentare ciò che venne successivamente definita ‘calotipia’, dal greco καλός (kalos) bello e τύπος (tupos) impronta o segno. Il principio fondamentale del processo è l’annerimento dell’argento con l’esposizione alla luce; tralasceremo in questo articolo tutte le altre tecniche non argentee come la cianotipia, platinotipia, gomma bicromata ecc.

Dopo i primi periodi storici, le carte fotografiche iniziarono ad essere prodotte a livello industriale e presentarono le loro prime caratteristiche e differenze. Possiamo tracciare una breve sintesi storica, fino all’invenzione del colore, dei tipi di carta utilizzata per la stampa fotografica che avveniva, tipicamente per contatto diretto col negativo ed esposizione alla luce. Si passa dalle prime carte ‘salate’ imbevute in sale e nitrato d’argento alle carte all’albumina dove il nitrato d’argento veniva disposto su un doppio strato di chiaro d’uovo, bromuro di potassio e acido acetico. Verso la fine dell’800 si arriva alle carte alla gelatina ai sali d’argento che miglioreranno sempre di più, fino ai giorni nostri, diventando le classiche carte politenate. Queste carte erano molto resistenti perché proteggevano l’emulsione di gelatina con bromuro d’argento attraverso uno strato di polietilene. Una speciale categoria di carte utilizzava il solfato di bario come supporto ove disporre poi la gelatina fotosensibile. Con questo processo si ottenevano delle carte più bianche e dalla scala di grigi maggiore nonostante richiedessero maggiori accorgimenti di processo.

Le carte da stampa fotografica in bianco e nero

In altre parole le carte da stampa tradizionale da camera oscura si suddividono in base a diverse caratteristiche:

1- in base al supporto, baritate (FB che sta per Fiber Based) e politenate (RC che significa Resin Coated). Tra le due è più apprezzata e prestigiosa la baritata in quanto dispone di un’emulsione maggiore, quindi con più argento, e dei bianchi più brillanti.

2- In base al tono: neutro, caldo o freddo. C’è poco da aggiungere.

3- In base alla gradazione di contrasto. Alcune carte reagivano dando stampe con un più o meno alto livello di contrasto tra bianchi e neri.

4- In base alla superficie. Qui si intende la parte superiore della carta e il suo aspetto riferito alla scabrezza della superficie stessa, viene espressa dalla lucentezza o lucidezza (in inglese gloss). Si possono quindi avere carte lucide, opache o semi lucide (pearl, satin luster o lustre) proprio in funzione del livello di lucentezza della loro superficie. Quelle definite gloss hanno la caratteristica di avere una superficie completamente liscia e danno riflessi speculari. Quelle opache, invece, non danno alcun riflesso e si presentano più ‘fibrose’. Mentre le semi-lucide uniscono entrambe le caratteristiche precedenti: consentono di ottenere dei neri profondi e colori saturi come le lucide ma consentono una maggiore manualità e resistenza della superficie, come quelle opache.

Dopo questa classificazione concludo descrivendo brevemente il funzionamento della carta da stampa tradizionale. In questo modo sarà chiaro come avveniva, ed avviene tutt’ora nelle camere oscure ancora funzionanti, il processo di ‘stampa tradizionale’ fotografica.

Dato che nella fotocamera, fino all’invenzione del bagno d’inversione che ha permesso la nascita delle diapositive, si ottenevano immagini ‘negative’ era necessaria la stampa per riportarle in positivo. Dunque l’immagine negativa veniva usata per proiettare luce (o per contatto) sulla carta da stampa.

Come si formava il negativo? Dove arrivava luce, si “sensibilizzavano” i reagenti sulla cellulosa, dove invece era buio, questi reagenti non si “attivavano”. Nella fase di sviluppo, i reagenti attivati venivano anneriti, quelli non attivati si disperdevano nell’acqua lasciano così le aree trasparenti. Nella stampa, quindi, dove il negativo era scuro la luce arrivava con minor intensità e produceva le zone chiare perché manteneva il bianco carta. Dove, invece, il negativo era chiaro la luce sulla carta era maggiore dunque si anneriva nel processo chimico e generava le ombre. Si otteneva così una serie di stampe ‘positive’ a partire da un’immagine che, nella fotocamera lasciava la sua impronta luminosa in ‘negativo’.

La stampa fotografica a colori

Tralasciamo tutto ciò che appartiene al mondo della chimica e del processo di sviluppo per proseguire con l’applicazione di questo principio fondamentale per arrivare alla stampa a colori, sempre di tipo tradizionale o, come spesso, si dice: la stampa cromogenica (C-print)

La ricerca di una riproduzione fotografica a colori è praticamente contemporanea alla nascita stessa della fotografia. Già a metà dell’800 James Maxwelll, teorico della sintesi additiva dei colori, aveva riprodotto un oggetto a colori riprendendolo attraverso tre filtri Rosso, Verde e Blu. Ma la diffusione della stampa a colori si può far risalire alla diffusione delle pellicole pancromatiche negli anni ’30 del secolo scorso: le Kodacolor e le Agfacolor.

Da questi negativi si ottenevano immagini dai colori ‘invertiti’ attraverso un sistema composto da tre strati sull’emulsione, ognuno di essi sensibile a diverse lunghezze d’onda dello spettro visibile. Allo stesso modo la carta fotografica a colori veniva impressionata e sviluppata in modo da invertire nuovamente i tre strati di colore e ritornare all’immagine con colori reali, positivi.

Anche nelle carte fotografiche a colori si possono applicare le stesse classificazioni fatte precedentemente per quelle in bianco e nero anche se, nel colore, non c’è stato un così ampio proliferare di caratteristiche diverse come nel mondo della stampa fotografica in bianco e nero. La fotografia a colori è sempre stata considerata più commerciale, nell’era analogica, ma ha avuto, invece, una grande riscoperta con l’era digitale che affronteremo nel prossimo articolo.

© Giuseppe Andretta – fineartconnection.it

Il video di vimeno condiviso nell’header di questa pagina è “Fotografia de gran formato, 20×25 (8×10″), large format photography” di © Ledicia Audiovisual – ledicia.org e descrive il processo produttivo delle fotografie con macchine folding a banco ottico tipiche di inizio secolo.
Guarda il video in forma integrale.

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